“231” n. 4/2023

 

NEWSLETTER “231” n. 4/2023

  • Appalti di servizio. La giurisprudenza traccia il confine tra liceità e illiceità

La recente sentenza della Corte di Cassazione, sez. III penale (4.05.2023, n. 18530), torna ad affrontare il delicato tema degli appalti di servizio segnando il confine tra quelli che possono essere definiti leciti strumenti operativi e l’intermediazione illecita di manodopera.

Con riferimento all’appalto di lavoro – istituto di riferimento del caso di specie – è generalmente previsto che l’appaltatore, assumendosi i relativi rischi di impresa e utilizzando mezzi propri, mantenga i poteri direttivi e organizzativi dell’attività dei propri dipendenti nell’esecuzione dell’opera o del servizio commissionati. Diversamente, l’appaltante ne riceverà in godimento il risultato, senza intervenire direttamente nella realizzazione dello stesso.

Il fatto:

il Presidente del Consiglio di Amministrazione di una Società esercente l’attività di ristorazione veniva condannato in concorso con l’amministratore unico di una azienda esercente attività servizi di sostegno alle imprese per aver eluso nodi appalto di servizi avente ad oggetto “servizio di cucina, servizio di sala“, contratto che in realtà celava un accordo di somministrazione di lavoro in assenza dei requisiti di legge, posto che, in base a tale accordo, una pluralità di dipendenti venivano di fatto impiegati alle dipendenze della società di ristorazione.

La difesa sosteneva che nell’ambito del menzionato accordo negoziale la società appaltatrice era chiamata a svolgere le proprie attività tramite organizzazione di mezzi e gestione a proprio rischio e a regola d’arte, restando “libera di determinare modalità e termini di esecuzione di tutte le operazioni e le attività che ritenga necessarie, utili e funzionali per la realizzazione del servizio“.

In questa prospettiva l’appalto avrebbe dovuto essere considerato lecito dal momento che, secondo quanto sostenuto dalla difesa dell’imputato, dovevano considerarsi esistenti nell’ambito del rapporto contestato gli elementi costitutivi, sopra accennati, di un (lecito) contratto di appalto.

Il Giudice di merito – con sentenza di condanna che veniva confermata in sede di legittimità – riteneva, di contro, che l’operazione negoziale si era di fatto concretizzata in una mera messa a disposizione di energie lavorative di dipendenti formalmente assunti dall’impresa appaltatrice. Riteneva che quest’ultima aveva fornito solo la manodopera, non assumendo alcun rischio economico in merito alla realizzazione del servizio di cui al contratto di appalto. Ed invero, i lavoratori erano inseriti nell’organizzazione aziendale della committente, i cui soci programmavano i turni di lavoro e gestivano le richieste di permessi, le ferie e i riposi.

Considerazioni conclusive:

il caso esaminato consente di soffermare l’attenzione su di un aspetto che caratterizza i menzionati rapporti di lavoro e che appare di grande rilevanza, soprattutto nell’ottica di valutare se la società che si appresta a stipulare un contratto di appalto si espone al rischio di contestazioni sia in sede penale, sia in sede civile.

Come anticipato elementi costitutivi dell’appalto sono l’organizzazione di mezzi e l’assunzione del rischio di impresa. Occorre, sin da subito, specificare che con la nozione di “mezzi” si debba fare riferimento ad elementi di natura materiale (ad esempio, attrezzature) e di carattere immateriale (ad esempio, contratti – rapporti di lavoro) di cui l’appaltatore deve essere titolare o avere disponibilità e autonomia gestoria.

Da ciò discende che nell’ipotesi di contratti di appalto in cui è preponderante l’aspetto della manodopera (c.d. appalti labour intensive), e solo residuale l’impiego di elementi di natura materiale (come accade per i servizi di ristorazione o di pulizia, oggetto della decisione in commento), tema centrale diviene l’organizzazione del lavoro da parte dell’appaltatore e l’esercizio dei tipici poteri datoriali da parte dello stesso (tra cui il potere di organizzazione, direzione e controllo, o il potere disciplinare).

In queste ipotesi venendo meno – anche da un punto di vista probatorio – l’aspetto connesso alla titolarità dei beni materiali in capo all’appaltatore, dovrà essere maggiormente valorizzato l’aspetto connesso all’esercizio dei poteri datoriali in capo a quest’ultimo.

E così, si dovrà poter dimostrare che nessun ruolo ha svolto il committente nella scelta dei lavoratori, nel numero o nella loro identità personale, che quest’ultimo non abbia impartito direttive, definito le attività da svolgere nella quotidianità, esercitato direttamente il potere sanzionatorio sui dipendenti dell’appaltatore. Ciò impone alle società di prestare molta attenzione tanto alla fase di stipulazione dell’accordo quanto alla fase esecutiva dello stesso.

Possibili conseguenze:

quanto alle possibili sanzioni per il caso di intermediazione illecita di manodopera, si consideri che è possibile l’azione civile mediante ricorso del lavoratore che, formalmente alle dipendenze dell’appaltatore, agisce in giudizio nei confronti del committente al fine di vedere accertata la sussistenza del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore finale sin dall’origine dell’appalto, e di ottenere la formale costituzione dello stesso.

Inoltre, se l’appalto è illecito, in quanto privo dei requisiti legali sopra descritti, si configura un’ipotesi di somministrazione illecita di manodopera. Pertanto, l’appaltatore e il committente sono entrambi soggetti alla sanzione amministrativa pecuniaria pari a Euro 60,00 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione (innalzati a Euro 70,00 in caso di recidiva nel triennio).

Inoltre, l’importo della sanzione amministrativa concretamente da irrogare non può, in ogni caso, essere inferiore a Euro 5.000, né superiore a euro 50.000.

Nel caso, poi, l’appalto illecito comporti anche lo sfruttamento di minori, si realizza anche un’ipotesi di reato, punita con l’ammenda fino a Euro 360,00 per ciascun lavoratore e per ciascuna giornata (innalzati a Euro 420,00 in caso di recidiva nel triennio), congiuntamente alla pena detentiva dell’arresto fino a 18 mesi.

Ove, poi, come nel caso di specie, l’appalto illecito sia stato posto in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate ai lavoratori impiegati, la fattispecie ricade nel campo di applicazione di cui all’art. 38 bis del D. Lgs. 81/2015 che disciplina il reato di somministrazione fraudolenta di manodopera. In tale ipotesi, ferme le sanzioni amministrative sopra indicate, troverà applicazione anche la pena dell’ammenda di Euro 20,00 per ogni lavoratore occupato e per ciascuna giornata di occupazione.

Inoltre, mentre, come visto, nel caso dell’appalto illecito, la circostanza che il lavoratore venga ad essere considerato dipendente dell’effettivo utilizzatore è subordinata al fatto costitutivo dell’instaurazione del rapporto di lavoro su domanda del lavoratore stesso, essendo l’appalto fraudolento nullo per illiceità della causa negotii, i lavoratori coinvolti devono essere considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore, indipendentemente da una loro iniziativa giudiziale.

  • RISCHIO CALORE

Il 28 Luglio 2023 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto Legge n. 98/2023 che contiene le “Misure urgenti in materia di tutela dei lavoratori in caso di emergenza climatica”.

Il datore di lavoro, tenuto conto delle temperature elevate che possono registrarsi nei mesi estivi, deve effettuare una specifica valutazione del rischio da esposizione a ondate di calore e delle conseguenti misure necessarie per la tutela della incolumità del ricorrente e di prevenzione dei rischi lavorativi ai quali lo stesso è esposta.

Sulla base di questi presupposti è stata riconosciuta dalla giurisprudenza la responsabilità del datore di lavoro nel caso di lavoratore che si stava occupando del posizionamento di una copertina di cemento su un muretto esterno ad una villetta, esposto al sole in una giornata particolarmente calda, in un orario (immediatamente successivo alla pausa pranzo) in cui i valori termici progrediscono verso il massimo, con rischio di ipertermia da colpo di calore, dovuto anche allo sforzo fisico impiegato nell’attività (Cass. Sez.IV, 9 agosto 2022 n.30789). In particole, è stato affermato che, in situazioni del genere, vanno previste ed applicate regole precauzionali capaci di prevenire la concretizzazione del rischio, evitando di sottoporre il lavoratore ad attività all’esterno faticose in ore calde, prevedendo pause di riposo frequenti, predisponendo ripari ombreggiati, oltre ad accorgimenti sul vestiario, nonché sulla alimentazione e idratazione. La mancata adozione del modello “231” ha comportato la condanna in ordine all’illecito di cui all’art. 25-septies dlgs. 231/2001.

Il D.L. 98/2023 prevede, per le attività lavorative del periodo luglio-dicembre 2023, la neutralizzazione, ai fini del calcolo dei limiti di durata massima di cassa integrazione ordinaria, dei periodi oggetto di trattamento ordinario di integrazione salariale (CIGO) per eventi oggettivamente non evitabili quali le eccezionali emergenze climatiche, estendendo anche al settore edile, lapideo e delle escavazioni, lo strumento già operante per altri settori.

Inoltre, si introduce la possibilità di ricorrere al trattamento d’integrazione salariale agricola (CISOA) a seguito di eccezionali eventi climatici, per le sospensioni o riduzioni dell’attività lavorativa effettuate nel periodo intercorrente dalla data di entrata in vigore del decreto fino al 31 dicembre 2023, anche in caso di riduzione dell’orario di lavoro, non conteggiando detti periodi di trattamento ai fini del raggiungimento della durata massima di 90 giornate l’anno stabilita dalla vigente normativa.

Si prevede che i Ministeri del lavoro e delle politiche sociali e della salute favoriscano la sottoscrizione di intese tra organizzazioni datoriali e sindacali per l’adozione di linee-guida e procedure concordate ai fini dell’attuazione delle previsioni del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, potendo recepire dette intese con proprio decreto. Il Ministero del Lavoro ha elaborato un vademecum per i rischi lavorativi da esposizione ad alte temperature.

 VADEMECUM

  • Inail e valutazione del rischio della commissione dei reati relativi a salute e sicurezza sul lavoro di cui al lgs.231/01.

Con le recenti “Linee di indirizzo per il monitoraggio e la valutazione del rischio della commissione dei reati relativi a salute e sicurezza sul lavoro di cui al 25-septies del d.lgs. 231/01”, l’INAIL fornisce  alle imprese uno strumento di diffusione della cultura della sicurezza e delle best practices di tipo organizzativo, tecnico e gestionale. Il Documento costituisce un supporto operativo per l’implementazione di sistemi di gestione volti alla prevenzione di infortuni sul lavoro e della responsabilità dell’ente.

Le Linee di indirizzo sono state realizzate nell’ambito del Protocollo d’Intesa con Capitalimprese (Associazione Italiana Industriali Piccole e Medie Imprese) e contengono indicazioni per controllare e misurare i rischi di commissione dei reati relativi alla salute e sicurezza sul lavoro.

In particolare, si legge nel comunicato, “vengono fornite indicazioni su come monitorare e misurare i rischi di commissione dei reati relativi alla salute e sicurezza sul lavoro attraverso specifiche modalità operative conformi alla UNI ISO 45001:18”.

E ancora “Le linee di indirizzo mirano innanzitutto a orientare le imprese nella realizzazione di un modello che sia il più possibile aderente al proprio contesto organizzativo, in modo da costituire uno strumento utile sia alla riduzione degli infortuni, sia al miglioramento della gestione complessiva delle attività. Inoltre, tale strumento consente all’impresa di rispettare i dettami normativi, tutelandosi dalla responsabilità amministrativa. In generale, una gestione corretta della salute e sicurezza porta alla riduzione dei rischi diventando anche un importante strumento di competitività”.

Il fulcro del modello di gestione proposto è costituito dall’attività di audit che, effettuata in maniera rigorosa, consente di fornire all’organizzazione indicazioni su quali sono le aree del proprio modello organizzativo e gestionale in cui è necessario diminuire i livelli di rischiosità, nell’ottica del miglioramento continuo.

4)    Sicurezza sul lavoro: le Linee Guida INAIL

Con le recenti “Linee di indirizzo per il monitoraggio e la valutazione del rischio della commissione dei reati relativi a salute e sicurezza sul lavoro di cui al 25-septies del d.lgs. 231/01”, l’INAIL fornisce  alle imprese uno strumento di diffusione della cultura della sicurezza e delle best practices di tipo organizzativo, tecnico e gestionale. Il Documento costituisce un supporto operativo per l’implementazione di sistemi di gestione volti alla prevenzione di infortuni sul lavoro e della responsabilità dell’ente.

Le Linee di indirizzo sono state realizzate nell’ambito del Protocollo d’Intesa con Capitalimprese (Associazione Italiana Industriali Piccole e Medie Imprese) e contengono indicazioni per controllare e misurare i rischi di commissione dei reati relativi alla salute e sicurezza sul lavoro.

L’iniziativa persegue il duplice obiettivo di aiutare le imprese ad organizzarsi in modo da ridurre il numero degli infortuni ed a migliorare complessivamente la propria attività. Il fulcro del modello proposto è la funzione di audit che, individuando le aree che necessitano di interventi di riduzione del rischio, contribuisce al miglioramento continuo dell’ente.

Nel Documento si evidenzia, inoltre, che “una corretta gestione della salute e sicurezza porta alla riduzione dei rischi diventando non solo un valore etico e morale, ma anche un importante strumento di competitività“.

decreto legislativo 8 giugno 2001 n.231

Ammissibilità delle registrazioni sul luogo di lavoro come prova

Ammissibilità delle registrazioni sul luogo di lavoro come prova

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 20487 del 21 luglio 2025, ha ribadito i limiti e le condizioni essenziali per l’utilizzo delle registrazioni in contesti di controversie lavorative.

In particolare, ha chiarito che il consenso del titolare dei dati personali non è richiesto quando sia necessario far valere o difendere un diritto in giudizio. Questo deriva dall’esigenza di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza e della tutela giurisdizionale del diritto. Le registrazioni fonografiche di colloqui tra dipendenti sul luogo di lavoro sono riproduzioni meccaniche ai sensi dell’art. 2712 c.c. . Pertanto possono costituire una prova ammissibile sia nel processo civile del lavoro che in quello penale, senza che sia necessario il consenso dei presenti, se utilizzate a fini difensivi.

La deroga al consenso è prevista dall’art. 24 del D.lgs. n. 196/2003.  . Tale deroga si applica a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per far valere o difendere un diritto e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento. La condotta del lavoratore che effettua delle registrazioni per tutelare la propria posizione è giudicata legittima purché la registrazione sia pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità. Tuttavia, l’applicazione di tali principi richiede un attento bilanciamento, fondato su una valutazione rigorosa del requisito di pertinenza. Questa è intesa come diretta e necessaria strumentalità della registrazione alla finalità difensiva, all’interno di una scrupolosa contestualizzazione della vicenda.

Il caso esaminato dalla Cassazione (Ordinanza n. 20487/2025)

La recente ordinanza della Cassazione ha fornito un’importante applicazione di questi principi. Il caso riguardava un dipendente di un’azienda italiana al quale era stata irrogata una sanzione disciplinare conservativa (sospensione dal lavoro). La sanzione era stata irrogata per aver registrato occultamente una conversazione avvenuta nei locali aziendali tra il direttore del personale e una dipendente.

Il lavoratore ha sostenuto che la registrazione era legittima in relazione all’esercizio del suo diritto di difesa. É stata motivata con il ritrovamento di una nota di demerito nel suo fascicolo personale e la presenza di precedenti disciplinari.

Tuttavia, la Corte d’appello ha accertato che la registrazione era stata effettuata a marzo 2016, quando non vi era alcun contenzioso pendente tra il lavoratore e l’azienda. I giudici hanno ritenuto che tale registrazione, non essendo stata realizzata in vista di un procedimento giurisdizionale e al fine di precostituire prove difensive, avesse una finalità meramente esplorativa.

La Cassazione ha confermato il rigetto del ricorso. Ha ribadito l’assenza di un nesso di pertinenza e strumentalità tra la registrazione del colloquio avvenuto tra altri dipendenti e l’esercizio del diritto di difesa. La distanza temporale tra la registrazione (2016) e la proposizione del ricorso (2018), era notevole. In più, l’inesistenza di un nesso di contenuto tra la registrazione e l’oggetto del ricorso, ha portato a escludere i presupposti per considerare scriminata la violazione del diritto alla riservatezza altrui.

L’ordinanza della Cassazione sottolinea che non è sufficiente una generica percezione di un clima aziendale ostile o la presenza di precedenti disciplinari per legittimare registrazioni occulte. É invece richiesta una connessione diretta e imminente con una specifica esigenza difensiva. L’effettuazione di registrazioni non conformi a tali principi può costituire una violazione degli obblighi contrattuali di correttezza e fedeltà, con conseguenti sanzioni disciplinari.

Contratti a termine: prorogata al 31 dicembre 2026 la validità delle causali individuali.

Contratti a termine: prorogata al 31 dicembre 2026 la validità delle causali individuali.

La legge di conversione del DL 95/2025 (L. 118/2025) ha prorogato al 31 dicembre 2026 la possibilità di inserire nei contratti a termine, in assenza di specifiche previsioni della contrattazione collettiva, causali individuate direttamente dalle parti.

La regola generale, secondo l’Art. 19 del D.lgs. 81/2015, consente la stipula di contratti a termine senza causale per una durata massima di 12 mesi.

Per durate superiori ai 12 mesi e fino al limite di 24 mesi, è richiesto l’inserimento di una causale giustificatrice.

Il D.L. 48/2023 aveva inizialmente previsto che tali causali fossero definite prioritariamente dalla contrattazione collettiva (nazionale, territoriale o aziendale).

Tuttavia, riconoscendo le difficoltà per i contratti collettivi di adeguarsi rapidamente, il legislatore aveva introdotto un regime transitorio che permettesse alle parti di definire autonomamente le esigenze giustificatrici.

La recente modifica ha concesso tempo ulteriore, fino al 31 dicembre 2026, per individuare nel singolo contratto una ragione di carattere tecnico, organizzativo o produttivo.

Questa possibilità è tuttavia subordinata all’assenza di specifiche previsioni in merito nel contratto collettivo applicato in azienda. In altre parole, se il contratto collettivo individua già le causali, queste devono essere rispettate.

Implicazioni e considerazioni operative

Quella che doveva essere una misura transitoria è ormai giunta alla quarta proroga consecutiva rendendo di fatto strutturale un regime che doveva essere transitorio (30 aprile 2024 → 31 dicembre 2024 → 31 dicembre 2025 → 31 dicembre 2026). Tale continuità evidenzia le difficoltà di adeguamento della contrattazione collettiva e trasforma quello che doveva essere un regime temporaneo in una soluzione di fatto stabile.

Il protrarsi di questa situazione può tuttavia generare disparità tra settori dove le causali sono già definite a livello collettivo (maggiore certezza, ma minore flessibilità) e quelli dove si ricorre alla definizione individuale (maggiore flessibilità, ma potenziale incertezza).

Infine, la definizione autonoma delle causali espone a un margine di discrezionalità maggiore e, conseguentemente, a un rischio più elevato di contestazioni e verifiche giudiziarie. La giurisprudenza richiede che le motivazioni siano specifiche, concrete e non generiche, riferite alla necessità di impiegare quel particolare lavoratore a termine. Una causale insufficiente o inadeguata potrebbe comportare la conversione del contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato.

La proroga al 31 dicembre 2026 consolida, dunque, un assetto normativo che da temporaneo sta assumendo carattere strutturale. Il fatto che nei contratti a termine sia prorogata la validità delle causali individuali ancora una volta è un fatto da tenere in considerazione.È opportuno prestare massima attenzione alla redazione delle causali individuali, sia per evitare contestazioni giudiziarie, sia per garantire contratti a termine coerenti con le esigenze aziendali e conformi alla legge.

GARANZIE PER IL CONTRIBUENTE SOTTOPOSTO A VERIFICHE FISCALI

Nella Gazzetta Ufficiale del 1° agosto 2025 n.177 compare la legge del 30 luglio 2025 n. 108. Essa converte il decreto-legge 17 giugno 2025 n. 84 (c.d. “decreto fiscale”, recante disposizioni in materia fiscale). La materia riguarda le garanzie per il contribuente sottoposto a verifiche fiscali.

Con l’art. 13-bis la legge introduce l’obbligo di motivare in modo adeguato i controlli fiscali nei luoghi in cui si svolge un’attività economica.

La disposizione interviene sull’articolo 12, comma 1, della Legge n. 212/2000. Essa stabilisce che negli atti di autorizzazione e nei verbali di verifica le autorità devono indicare in modo espresso e motivato le circostanze e le condizioni che giustificano l’accesso.

La novella legislativa segue la sentenza della Corte di giustizia dei diritti dell’uomo (CEDU), prima sezione, caso Italgomme Pneumatici s.r.l. e altri c. Italia, Ricorsi n. 36617/18 e altri, emessa il 6 febbraio 2025. In quella decisione, la Corte ha stabilito che l’accesso ai locali di attività professionale e l’acquisizione o la consultazione dei documenti contabili non devono interferire con il diritto alla “vita privata e familiare” sancito dall’art. 8 CEDU. Si tratta infatti di poteri che incidono sulla persona e sulla corrispondenza, sia cartacea sia elettronica, fino agli hard disk.

In dettaglio, la Corte EDU ha osservato che il quadro giuridico interno attribuiva alle Autorità nazionali un margine di discrezionalità illimitato sia nelle condizioni di attuazione delle misure controverse sia nel loro ambito di applicazione. Inoltre, tale quadro non garantiva procedure sufficienti. Le misure, pur essendo impugnabili in sede giurisdizionale, non subivano un controllo adeguato. Pertanto, il sistema interno non offriva il livello minimo di protezione spettante ai contribuenti secondo la Convenzione. La Corte ha ritenuto che, in tali circostanze, non si potesse affermare che l’ingerenza risultasse “conforme alla legge”, come richiesto dall’articolo 8 § 2 della Convenzione.

La sentenza di Strasburgo mette in evidenza la necessità della misura. Il giudizio deve riguardare la proporzionalità del mezzo rispetto al fine perseguito. Questo requisito non può ridursi a una valutazione di mera ragionevolezza, ma deve basarsi sulla preferenza per il mezzo meno invasivo a parità di risultati prevedibili. La decisione ribadisce i principi già affermati più volte dalla Corte. Le Autorità degli Stati devono garantire un giusto equilibrio tra tutela del domicilio e della corrispondenza dei cittadini e l’interesse pubblico perseguito dalla Pubblica Autorità.

La legge 108/2025 precisa che la norma si applica solo agli atti di autorizzazione e ai verbali di accesso redatti dopo l’entrata in vigore della legge di conversione del Decreto fiscale. Restano comunque validi gli atti e i provvedimenti già adottati. Restano salvi anche gli effetti prodotti e i rapporti sorti sulla base delle disposizioni precedenti.

LA SOSTENIBILITÀ E IL DL 95/2025 CONVERTITO IN LEGGE

LA SOSTENIBILITÀ E IL DL 95/2025 CONVERTITO IN LEGGE

Il 6 agosto 2025 la Camera dei deputati ha approvato in via definitiva, con modificazioni, la conversione del decreto-legge 30 giugno 2025, n. 95.  Il provvedimento contiene misure urgenti per il finanziamento delle attività economiche, interventi sociali, infrastrutture, trasporti ed enti territoriali.

L’art. 10, comma 1-bis, modifica il calendario degli obblighi sui bilanci di sostenibilità dopo l’adozione della nuova disciplina europea. Questa riscrive le scadenze per il reporting in materia. Il percorso dell’Unione Europea verso la sostenibilità è iniziato formalmente nel 2014 con la Direttiva NFRD sulla dichiarazione non finanziaria. Essa ha introdotto nei sistemi nazionali il linguaggio della sostenibilità e l’obbligo di maggiore trasparenza, vista come strumento per obiettivi più ampi.

La Direttiva (UE) 2022/2464 (CSRD) del 14 dicembre 2022 rappresenta un’evoluzione importante. Richiede alle grandi imprese e alle PMI (escluse le micro) di includere nella relazione sulla gestione informazioni sugli impatti ambientali e sociali. Vanno anche indicate le modalità con cui tali fattori influenzano l’andamento, i risultati e la situazione aziendale (art. 19-bis). La norma dettaglia gli elementi di modello e strategia aziendale, le comunicazioni ai rappresentanti dei lavoratori e le limitazioni per le PMI. Impone alle imprese madri di grandi gruppi una rendicontazione consolidata, con l’indicazione di piani, gestione dei rischi e considerazione degli stakeholder (art. 29-bis). Definisce inoltre i principi di rendicontazione per aspetti ambientali, sociali, diritti umani e governance, inclusi controlli interni ed etica aziendale.

La Direttiva (UE) 2024/1760 (CSDDD) introduce obblighi di due diligence. Le imprese devono valutare e gestire i rischi legati ai diritti umani e agli impatti ambientali nelle proprie attività e nella catena di fornitura.

La direttiva “stop the clock” 2025/794 ha rinviato per alcune imprese gli obblighi di rendicontazione e due diligence, concedendo più tempo per adeguarsi.

Il DL 95/2025 conferma l’obbligo di bilancio di sostenibilità dal 2024 per le grandi imprese enti di interesse pubblico con oltre 500 dipendenti medi annui. L’obbligo vale anche per le società madri di grandi gruppi che superano tale soglia su base consolidata.

Per le altre grandi imprese e società madri, l’obbligo scatterà dagli esercizi avviati dal 1° gennaio 2027. Per le PMI quotate (escluse le micro) la data è il 1° gennaio 2028.

Anticipare l’adeguamento può offrire un vantaggio competitivo. Significa migliorare il posizionamento verso investitori, clienti e partner attenti ai criteri ESG, oltre a rendere la transizione più efficiente.

La normativa bancaria e finanziaria già vigente si applica anche a chi non è obbligato alla rendicontazione. Le banche, tenendo conto dei rischi ESG nei criteri di credito, spingeranno tutte le imprese verso tali standard. Chi non li rispetta può incontrare difficoltà di accesso ai finanziamenti o condizioni meno favorevoli.

Anche il diritto dei contratti risente della svolta: la sostenibilità emerge come nuovo parametro di meritevolezza ai sensi dell’art. 1322 c.c. La dottrina del “contratto ecologico” impone un uso razionale delle risorse e la tutela dei diritti sociali.

La sostenibilità come canone interpretativo può rinnovare istituti giuridici senza alterare il sistema normativo. Affrontare le sfide in questo ambito richiede cooperazione tra pubblico e privato. Il diritto non risolve tutto, ma può contribuire a un futuro più ospitale per le generazioni presenti e quelle a venire.

TFR anticipato mensilmente in busta paga

TFR anticipato mensilmente in busta paga: l’interpretazione dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro e della Corte di Cassazione

 Con la nota n. 616 del 3 aprile 2025, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha chiarito che l’erogazione del Trattamento di Fine Rapporto (TFR) direttamente in busta paga, pratica diffusa soprattutto nei contratti a tempo determinato o stagionali, è illegittima. Secondo l’INL, questa prassi snatura la funzione del TFR, trasformandolo in una componente della retribuzione ordinaria, con conseguenze fiscali e contributive.

Il TFR, disciplinato dall’articolo 2120 del Codice civile, è una retribuzione differita che deve essere pagata alla cessazione del rapporto di lavoro. Il legislatore prevede che venga accantonato nel tempo, salvo alcune eccezioni che autorizzano l’anticipazione di una parte del maturato, come spese sanitarie straordinarie, acquisto della prima casa e congedi parentali. L’anticipazione è subordinata ad almeno otto anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro e può essere concessa una sola volta.

L’INL ribadisce che accordi individuali o collettivi non possono derogare a questi presupposti, né introdurre l’erogazione mensile del TFR come condizione di miglior favore. La giurisprudenza, con la sentenza della Cassazione n. 4670/2021, ha confermato che, in assenza di documentazione coerente con l’art. 2120 c.c., le somme erogate devono considerarsi imponibili ai fini previdenziali, con possibilità di recupero dei contributi da parte dell’INPS.

Un esempio di eccezione regolata per legge è la “Quota Integrativa della Retribuzione” (QUIR), introdotta tra il 2015 e il 2018, che consentiva ai lavoratori privati con almeno sei mesi di anzianità di ricevere il TFR in busta paga. Tuttavia, questa misura era temporanea e non è stata prorogata.

L’INL chiarisce che, in assenza delle condizioni legali per l’anticipazione, l’erogazione del TFR deve essere considerata retribuzione ordinaria. Pertanto, invita il personale ispettivo ad attivarsi nei casi in cui la prassi venga riscontrata, ordinando l’accantonamento delle quote anticipate.

Per le aziende con più di 50 dipendenti, obbligate a versare le quote maturate al Fondo Tesoreria INPS, il TFR assume natura di contributo previdenziale obbligatorio e non può essere erogato anticipatamente.

Anche la Corte di Cassazione, con sentenza n. 13525/2025 ha affermato l’illegittimità della anticipazione del TFR in busta paga ogni mese in maniera continuativa pur a seguito di un accordo con i lavoratori ex art. 2120 c.c., inserito nella lettera di assunzione.

La Corte ha affermato che le condizioni di miglior favore, che il patto individuale può legittimamente introdurre al regime legale di anticipazione del TFR, non possono concretizzarsi in una erogazione mensile, atteso che le stesse possono unicamente ampliare i presupposti legali stabiliti per le anticipazioni del TFR accantonato soltanto se il lavoratore ha almeno otto anni di anzianità, per un importo massimo del 70%, entro il tetto del 10% degli aventi diritto e del 4% del numero totale dei dipendenti. Di conseguenza, l’Inps è abilitata a chiedere su tali somme erogate mensilmente la ordinaria contribuzione.

Congedo Parentale: terzo mese all’80%

L’INPS, con la Circolare n. 95 del 26 maggio 2025, ha pubblicato le istruzioni operative per le nuove regole sul congedo parentale introdotte dalla Legge di Bilancio 2025 (L. 207/2024).

La principale novità è l’elevazione dell’indennità di congedo parentale all’80% della retribuzione per un massimo di tre mesi per ogni coppia genitoriale.

L’indennità maggiorata spetta esclusivamente ai lavoratori dipendenti. Se uno dei genitori non è dipendente, l’elevazione all’80% si applica solo ai mesi fruiti dal genitore lavoratore dipendente.

Le nuove disposizioni si applicano ai periodi di congedo parentale fruiti a partire dal 1° gennaio 2025.

Il diritto ai tre mesi all’80% dipende dalla data di nascita o ingresso in famiglia del minore e dalla fine del congedo obbligatorio:

  • Per i minori nati/adottati/affidati dal 1° gennaio 2025: spettano tre mesi all’80% a prescindere dalla fine del congedo obbligatorio, purché il genitore sia lavoratore dipendente al momento della fruizione.
  • Per i minori nati/adottati/affidati prima del 1° gennaio 2025: spettano tre mesi all’80% se almeno un genitore lavoratore dipendente ha terminato il congedo di maternità o paternità obbligatorio dopo il 31 dicembre 2024. In caso contrario, si applicano le regole precedenti (massimo due mesi all’80%).

I periodi indennizzati all’80% devono essere fruiti entro il sesto anno di vita del bambino (o dall’ingresso in famiglia per adozione/affidamento). Questi tre mesi possono essere utilizzati da entrambi i genitori, anche contemporaneamente, o solo da uno di essi. L’80% si applica per un massimo di tre mesi complessivi, anche se fruiti in modalità oraria o frazionata.

I tre mesi all’80% rientrano nel limite massimo complessivo di congedo parentale di dieci mesi per coppia genitoriale (che diventano undici se il padre si astiene per almeno tre mesi), fruibili entro i 12 anni del figlio. Oltre ai tre mesi all’80%, rimangono sei mesi indennizzati al 30% (indipendentemente dal reddito) e due mesi non indennizzati (salvo il caso di reddito sottosoglia dichiarato dal genitore, nel qual caso sono al 30%).

La domanda va presentata esclusivamente in modalità telematica tramite il portale INPS, Contact Center Multicanale o Patronati.

Per i datori di lavoro, l’INPS ha istituito nuovi codici evento per il flusso Uniemens a partire da gennaio 2025 per indicare i periodi all’80%: “PG4” (orario) e “PG5” (giornaliero). Il nuovo codice conguaglio è “L331”. Sono inoltre fornite istruzioni specifiche per correggere le denunce già inviate per i mesi da gennaio a giugno.

In sintesi, dal 2025, i lavoratori dipendenti hanno diritto a un totale di tre mesi di congedo parentale indennizzati all’80%, con requisiti specifici legati alla data di nascita del figlio e alla fine del congedo obbligatorio.

Periodo di prova nei contratti a termine: novità introdotte dalla L. 203/2024

La Legge n. 203/2024 con l’art. 13 ha previsto che la durata del periodo di prova per i rapporti di lavoro a tempo determinato di cui non è parte la pubblica amministrazione, è fissata in 1 giorno di effettiva prestazione ogni 15 giorni di calendario a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro.

In ogni caso, la durata del periodo di prova non può essere inferiore a 2 giorni né superiore a 15 giorni per i contratti con durata non superiore a 6 mesi, e non può essere inferiore a 2 giorni e superiore a 30 giorni per quelli con durata superiore a 6 mesi e inferiore a 12 mesi.

Pertanto, in ragione della durata del rapporto si può individuare quella del corrispondente periodo di prova:

15/2 – 30/2 – 45/3 – 60/4 – 75/5 – 90/6 – 105/7 – 120/8 -135/9 – 150/10 – 165/11 – 180/12 – 195/13 – 210/14 -225/15 – 240/16 – 255/17 – 270/18 – 285/19 -300/20 – 315/21 – 330/22 – 345/23 – 360/24 – 365/24.

Resta la possibilità delle diverse disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva che tuttavia, non sono oggettivamente definite dalla norma stessa: una minore durata del periodo di prova, infatti, non comporta necessariamente una condizione di miglior favore per il dipendente.

Il Ministero del Lavoro con la Circolare n. 6/2025 ha effettuato una lettura orientata ad ammettere solo riduzioni del periodo di prova rispetto al calcolo legale, mai estensioni.

A tale interpretazione si sono contrapposte letture secondo cui vi possono essere anche casi in cui il relativo innalzamento corrisponde ad un interesse del lavoratore, ed appare soprattutto coerente con la causa del patto che, in caso di periodo troppo breve, apparirebbe difficilmente configurabile (questa volta per eccessiva sua brevità).

Approvata la Legge sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili d’impresa

È entrata in vigore la nuova legge sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili delle aziende. La Legge 15 maggio 2025, n. 76 è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 120 del 26 maggio 2025.

Un aspetto fondamentale risulta essere il carattere volontaristico della legge: essa non impone obblighi cogenti alle imprese, ma offre piuttosto la possibilità di adottare le forme di partecipazione previste, spesso a condizione che siano disciplinate dai contratti collettivi applicati.

La norma individua e disciplina quattro principali ambiti in cui i lavoratori possono essere coinvolti nella vita dell’impresa.

La prima di queste dimensioni è la Partecipazione Gestionale. Questa è considerata la forma di partecipazione più strategica, poiché riguarda la possibilità per i lavoratori, tramite i loro rappresentanti, di avere voce nelle decisioni che contano di più, quelle che riguardano l’indirizzo dell’impresa, i suoi investimenti, le tecnologie, e la sua struttura. La legge prevede che lo statuto delle aziende possa (non è un obbligo generale imposto) includere rappresentanti degli interessi dei lavoratori negli organi di amministrazione (come il Consiglio di amministrazione) o di controllo (come il Consiglio di Sorveglianza o il Comitato per il controllo sulla gestione). Per fare questo, però, è indispensabile che tale possibilità sia prima regolata e definita da un contratto collettivo. Saranno questi contratti a stabilire come vengono scelti i rappresentanti, che dovranno possedere specifici requisiti di indipendenza e professionalità. questa forma è totalmente volontaria per l’impresa e legata alle decisioni prese nel suo statuto e negli accordi collettivi.

Il secondo ambito riguarda la Partecipazione Economica e Finanziaria. Questa dimensione permette ai lavoratori di condividere i risultati economici dell’impresa, ad esempio partecipando agli utili, o di diventarne in parte proprietari, attraverso l’acquisto o l’assegnazione di azioni (il cosiddetto azionariato dei dipendenti). La legge si concentra sui “piani di partecipazione finanziaria” e, in particolare, promuove la possibilità di assegnare azioni ai dipendenti al posto dei premi di risultato. Non si tratta di strumenti completamente nuovi, ma la legge cerca di incentivarli, soprattutto attraverso agevolazioni fiscali. Ad esempio, per il solo anno 2025, i dividendi da queste azioni (fino ad un certo importo) sono in parte esenti da tasse. Sempre per il 2025, ci sono incentivi maggiori per la partecipazione diretta agli utili.

Oltre agli aspetti economici e strategici, la partecipazione riguarda anche la vita lavorativa di tutti i giorni. Qui entra in gioco la Partecipazione Organizzativa. Questa forma si concentra sul coinvolgimento dei lavoratori nelle decisioni relative all’organizzazione del lavoro, ai processi di produzione e alla proposizione di idee per migliorare l’azienda. Può concretizzarsi con la creazione, all’interno dell’impresa, di commissioni paritetiche (composte da un numero uguale di rappresentanti dell’azienda e dei lavoratori) che hanno il compito di elaborare proposte. Inoltre, i contratti collettivi aziendali possono prevedere l’inserimento nell’organizzazione aziendale di figure specifiche (“referenti”) dedicate a temi come la formazione, il welfare, la gestione delle retribuzioni, la qualità del lavoro, la conciliazione vita-lavoro, e l’inclusione. Per le imprese più piccole, sotto i 35 dipendenti, gli enti bilaterali possono svolgere un ruolo di supporto per favorire queste forme di partecipazione.

Infine, l’ultima dimensione è la Partecipazione Consultiva. Questa assicura ai lavoratori, attraverso i loro rappresentanti, il diritto di essere informati e di esprimere pareri o proposte sulle decisioni che l’impresa sta per prendere, prima che vengano messe in atto. La consultazione può avvenire tramite le commissioni paritetiche, se esistenti, oppure coinvolgendo direttamente le rappresentanze sindacali interne (RSU/RSA) o le strutture locali degli enti bilaterali. Sono i contratti collettivi a definire i dettagli di come si svolge la consultazione: chi partecipa, i tempi, e gli argomenti specifici. La legge introduce una procedura formale per la consultazione, stabilendo tempi definiti e la possibilità per i rappresentanti di presentare un parere scritto che, tuttavia, non è vincolante per l’azienda. Anche in questo caso, come per la partecipazione organizzativa, si sottolinea come l’attuazione pratica dipenda molto dalla contrattazione e potrebbe rischiare di essere troppo legata alla volontà aziendale.

La legge riconosce l’importanza della formazione per l’efficacia delle pratiche partecipative: l’articolo 1266 impone un obbligo formativo per i rappresentanti dei lavoratori coinvolti, prevedendo un monte orario minimo di dieci ore annue.

È inoltre prevista l’istituzione di una Commissione nazionale permanente presso il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Tale commissione, composta da esperti designati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, avrà compiti di monitoraggio, studio, promozione e potrà esprimere pareri non vincolanti su controversie interpretative.

La Conciliazione sindacale firmata in sede aziendale

A meno di un anno di distanza dal discusso precedente del 15 aprile 2024, n. 10065, con ordinanza dell’8 aprile 2025, n. 9286, la Corte di cassazione torna a pronunciarsi sull’ ipotesi della conciliazione conclusa, giuridicamente, in c.d. “sede sindacale” ex art. 411 c.p.c., ma stipulata e sottoscritta, materialmente, in “sede aziendale”.

Invero, nell’occasione da ultimo affrontata, il vaglio del Collegio di legittimità riguardava l’impugnativa di un licenziamento per “giusta causa”, rinunciato lo stesso giorno dell’intimazione, alla presenza e con l’ausilio di funzionario del sindacato a cui il prestatore di lavoro non era iscritto oltreché, giustappunto, con apposizione delle firme avvenuta presso i locali della società ex datrice di lavoro.

In particolare, ad avviso dei giudici di legittimità, «la protezione del lavoratore non è affidata unicamente alla assistenza del rappresentante sindacale, ma anche al luogo in cui la conciliazione avviene, quali concomitanti accorgimenti necessari al fine di garantire la libera determinazione del lavoratore nella rinuncia a diritti previsti da disposizioni inderogabili e l’assenza di condizionamenti, di qualsiasi genere», di modo che, ritenendo come tassativa l’elencazione degli “spazi” normativamente ammessi a tal fine, terminavano stabilendo che «la conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell’art. 411, comma 3, c.p.c., non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest’ultima essere annoverata tra le sedi protette, avente il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente alla assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore».