Avvocato Innocenzo Megali

LA CORTE COSTITUZIONALE SULLA LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE DELL’ART. 18 ST. LAV.: LA SENTENZA N. 125/2022 SULLA MANIFESTA INSUSSISTENZA DEL FATTO MATERIALE

Prima di addivenire al merito della decisione, si rendono necessarie talune premesse.

Al momento della sua entrata in vigore, l’art. 18 veniva accolto con grande entusiasmo da parte dei lavoratori subordinati, essendo la prima disposizione ad accordare ai dipendenti di medie e grandi imprese una tutela in caso di illegittimo recesso datoriale (per le imprese con più di 15 dipendenti la tutela andava rivenuta nella legge 604/1966).

Ai sensi dell’art. 18, nella sua formulazione originaria, il datore di lavoro poteva licenziare i propri dipendenti solo allorquando sussistessero determinati motivi, tassativamente enucleati dalla medesima disposizione: giusta causa, giustificato motivo oggettivo e soggettivo.

In assenza di siffatti requisiti – oltre che nei casi di licenziamento nullo poiché discriminatorio, la cui tutela è sempre “reale piena” – il lavoratore, previo accertamento giudiziale dell’illegittimità del recesso, poteva essere reintegrato in servizio con diritto al risarcimento del danno, oltre che al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal licenziamento alla riammissione.

Tuttavia, l’art. 18 è stato reiteramente oggetto di emende dal 1992 (“Legge Fornero”) ad oggi, con progressiva decompressione della tutela “reale” rectius reintegratoria, dapprima concessa solo in casi tassativamente determinati, fino a giungere (con il “Jobs Act”) ad una tutela quasi totalmente indennitaria per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 (entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015 attuativo del Jobs Act).

Il carattere economico della tutela accordata ai lavoratori, destinatari di un recesso illegittimo, assurge a corollario mitigante della perentorietà del divieto sancito dall’art. 18, bilanciando (quantomeno secondo alcuni) l’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro con la libertà dell’iniziativa economica privata.

La tutela reale, id est reintegratoria piena, è accordata nelle limitate ipotesi tassativamente determinate, quali il licenziamento discriminatorio, ritorsivo o illegittimo allorquando il fatto materiale oggetto della contestazione non sussiste.

Siffatte modifiche hanno portato ad un annoso dibattito sulla conformità dell’art. 18, ratione temporis vigente, alle norme costituzionali.

Un primo profilo di illegittimità veniva individuato nel trattamento economico accordato al lavoratore illegittimamente licenziato, considerato inidoneo a ristorarlo del pregiudizio patito: per tale ragione, il “Decreto Dignità” ha aumentato il quantum risarcitorio (da un minino di 6 ad un massimo di 36 mensilità).

Altro profilo di illegittimità costituzionale atteneva ai criteri di determinazione del quantum risarcitorio.

Inizialmente, parametro per quantificare l’indennità era la sola anzianità di servizio: la Consulta ha dichiarato come, nella determinazione dell’ammontare risarcitorio, bisognasse tener conto anche della dimensione occupazionale dell’impresa, del numero dei dipendenti occupati e della condotta delle parti del rapporto.

Solo l’anno scorso, l’art. 18 L. 300/1970 – comma sette secondo periodo – veniva censurato dall’ennesima pronuncia di illegittimità costituzionale, laddove non consentiva la reintegrazione nell’ipotesi di manifesta insussistenza del fatto materiale contestato (Sent. N. 59 del 24.2.2021).

È di oggi l’ultima (per ora) Sentenza del Giudice delle Leggi avente ad oggetto il contestato art. 18 così come modificato dalla Legge Fornero.

La Consulta è intervenuta nuovamente sul settimo comma dell’art. 18, e, precipuamente, sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La novella 92/2012 tutela con la reintegrazione in servizio il lavoratore illegittimamente licenziato per giustificato motivo oggettivo nella sola ipotesi di “manifesta insussistenza del fatto materiale”.

Orbene, è proprio sul carattere “manifesto” dell’insussistenza che verte la pronuncia in esame, che si assume lesivo dei principi costituzionali rectius dell’art. 3 della Costituzione.

Secondo la prospettazione del giudice a quo vi sarebbe, in primo luogo, “una ingiustificata, irrazionale ed illegittima differenziazione tra il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, da un lato, e il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, dall’altro lato. Solo nella prima fattispecie sarebbe richiesta – ai fini della reintegrazione del lavoratore – una insussistenza manifesta del fatto e tale trattamento differenziato sarebbe sprovvisto di una plausibile ragion d’essere”.

Ed ancora, “Il vulnus al principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) si coglierebbe anche nel raffronto con la disciplina dei licenziamenti collettivi, che – nel caso di violazione dei criteri di scelta – concede la reintegrazione, invece preclusa per i licenziamenti individuali determinati da ragioni economiche”.

Il criterio individuato dal legislatore sarebbe, inoltre, “intrinsecamente illogico e dunque lesivo dell’art. 3, primo comma, Cost., in quanto incerto nella sua applicazione concreta e carente di un preciso e concreto metro di giudizio, idoneo a definire il carattere manifesto dell’insussistenza del fatto”.

L’irragionevolezza della disposizione censurata si rivelerebbe, inoltre, nell’inversione dell’onere della prova in essa sancita. Il lavoratore, pur estraneo alle relative circostanze di fatto, dovrebbe dimostrarne la manifesta insussistenza.

L’inversione dell’onere della prova a svantaggio del lavoratore entrerebbe in conflitto, inoltre, con il principio di eguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3, secondo comma, Cost.

Il rimettente prospetta, infine, il contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 24 Cost. La disposizione censurata comprimerebbe in maniera irragionevole e sproporzionata il diritto del lavoratore di agire in giudizio.

La Corte ha ritenuto fondata la questione inerente all’art. 3 Cost. (avente carattere assorbente rispetto alle altre) assumendo, anzitutto, l’indeterminatezza dell’espressione “manifesto” connotante l’insussistenza del fatto: siffatta indeterminatezza attribuirebbe troppa discrezionalità al datore di lavoro, oltre che ai giudici di merito, la cui valutazione sarebbe sfornita di ogni criterio direttivo nonché priva di un “fondamento empirico”.

Il presupposto in esame, inoltre, “non ha alcuna attinenza con il disvalore del licenziamento intimato, che non è più grave solo perché l’insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio”, essendo, in altre parole, “disancorato dal valore dell’illecito”.

Ed anzi, aggiunge lo scrivente, siffatto aggettivo potrebbe assumere valenza dissuasiva dal contenzioso laddove l’insussistenza sia difficile da provare.

Conclude la Corte osservando come il carattere “manifesto” richiesto dal legislatore del 2012 vanifichi la ratio della rapidità e della più elevata prevedibilità delle decisioni, principi che devono permeare l’ordinamento processuale.

Non ci si può esimere dal domandarsi se assisteremo ad altre censure della Corte aventi ad oggetto proprio l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

In particolare, lo scrivente si chiede se possa considerarsi legittima e coerente una previsione che esclude la tutela reale piena nell’ipotesi di insussistenza del “fatto giuridico”, accordandola, per converso, nella sola ipotesi di “insussistenza materiale” ancorché non manifesta.

Questo, quantomeno, si evince dall’esegesi puramente letterale dell’art. 18, c. 4 e 5 L. 300/1970.

Siffatta questione potrebbe essere la prossima sottoposta al vaglio della Consulta.